C’è un momento, ogni tanto, in cui il cervello dice basta. Non lo fa con uno schianto, ma con un’eco ovattata, come una stanza che si svuota. Succede anche in volo, a diecimila metri d’altezza, quando il Wi‑Fi si spegne e il silenzio si fa strada tra i sedili. È lì che ho osservato qualcosa che mi ha fatto paura, tenerezza e riflettere.
E da lì parte questa storia.
Il volo Lisbona‑Milano dura circa 2 h e 30 minuti. Non lunghissimo, ma un tempo già interessante di viaggio. Mi imbarco una domenica pomeriggio, di ritorno da una trasferta di lavoro. Sono al posto finestrino e accanto a me si siede una ragazza, sui 20 anni, di probabile provenienza nordica. Sapendo dell’imminente disconnessione, messaggia in modo piuttosto frenetico, come ormai quasi tutti. Lo fa fino all’esatto istante prima del decollo. Io mi ero preparato un libro e due articoli da scrivere. Dopo anni di viaggi, ho imparato a vivere questa bolla offline come una manna. Forse è l’età, o forse il fatto che sono figlio degli anni ’80.
La mia compagna di viaggio però inizia una serie di gesti che non ho potuto fare a meno di notare. Si perde tra app di giochi stordenti (una versione accelerata di Tetris ipercolorata), apre e chiude Netflix senza guardare nulla, scorre la home del telefono. Poi passa alla galleria: selfie, video, scorre e apre senza motivo. Ho dato uno sguardo furtivo: era una cascata di sé, come se cercasse qualcosa dentro quel flusso. Non volevo invadere, volevo solo capire cosa stava facendo il suo cervello.
Il suo fare nervoso e discontinuo mi ha messo paura. Mi ha ricordato “La generazione ansiosa”: una generazione creata da un binomio tecnologia‑social fuori controllo, in cui molti diventano automi alla ricerca di una stimolazione infinita. Quando spegneva il telefono e sospirava, restava ferma appena venti o trenta secondi, poi lo riaccendeva.
Distrazione continua
Pensate a quanto lo span di attenzione sia ormai un capitale eroso dalla triade: breve, intenso, infrequente.
Vi ricorda qualcosa? È il mantra dei contenuti che consumiamo ogni giorno: scorri, clicca, reagisci, dimentica.
Mi torna in mente una frase che ho letto e che si adatta perfettamente: siamo pieni delle cose sbagliate, e vuoti di quelle giuste. Perché guardandola, ho percepito una fame costante, ma per cose che non nutrono.
“Abbiamo bisogno di stimoli sempre più forti per sentirci vivi, ma così facendo stiamo perdendo il gusto delle cose semplici.”
Non è colpa sua, né nostra. Abbiamo normalizzato un modo di funzionare che semplicemente non regge. Viviamo nel rumore, ma siamo vuoti. Abbiamo accesso a tutto, ma non riusciamo a scegliere niente.
La resa dolce del cervello
Nel mio lavoro ho imparato a riconoscere i pattern neurologici che precedono il collasso: micro‑interruzioni, sovraccarico decisionale, perdita del senso di tempo. Ed è questo che osservavo al mio fianco: un blackout soft, mascherato da gioco. Un cervello che cerca di restare acceso con scosse, non con luce.
Cosa resterà di tutto questo?
Perché quello che manca davvero è la capacità di essere organismi di profonda consapevolezza. Ma per farlo, serve essere presenti. Avere tempo. Spazio. Rallentare. Essere attenti.
E invece siamo altrove.
Il mio leggere un libro non mi faceva sentire superiore a lei, né volevo giudicarla. Mi ha provocato paura e tenerezza insieme. Volevo parlare, capire come stesse. Quel comportamento era il tentativo di scappare da qualcosa. Ansia, vuoto… una tristezza che si finge noia.
Anche io, a volte, non riesco più a concentrarmi.
Apro una mail, la chiudo. Inizio a scrivere, smetto. Metto su una canzone, la cambio dopo trenta secondi. È come se il cervello, una volta abituato al fuoco d’artificio, non tolleri più la candela.
Ho imparato a non giudicarmi. Neanche un po’.
Quando il corpo ci parla
Il corpo lo sa prima di noi. Quando la mente è dispersa, il corpo resta sveglio. Autonomo. E parla piano, con una fitta alla schiena, una rigidità al collo, un respiro affannato.
In volo lo percepisco sempre. Le spalle si sollevano senza che lo voglia. Le mani cercano il telefono quando non c’è campo. Le gambe si muovono nervose, come cercassero direzione.
Il corpo ci avverte quando la mente non sente: fermati.
“Il corpo sa cose che la mente non vuole ammettere. E quando non lo ascoltiamo, inizia a gridare.”
Il vuoto delle scelte
Anche scegliere è diventato difficile. Apriamo Netflix e scorriamo per quindici minuti, poi chiudiamo. Apriamo la dispensa e restiamo immobili. Apriamo una mail, la chiudiamo senza leggere.
Non per mancanza di fame o progetto, ma perché la nostra capacità di scegliere è esaurita.
Non è pigrizia. È esaurimento cognitivo. Troppi stimoli, troppe opzioni: aprire un messaggio o decidere un caffè pare scalare una montagna.
Siamo pieni delle cose sbagliate, e vuoti di quelle giuste.
Bloccati in una stanza piena di porte, ma incapaci di aprirne una.
Mi chiedo quanti ragazzi oggi siano così, con gli occhi chini sugli schermi, mentre il cielo è sopra di loro. Li abbiamo messi in una scatola di silicio e litio, quando dovrebbero correre scalzi in un prato, sentire l’aria piena di vita.
Si parla di Intelligenza Artificiale, estensioni della mente, darle un cuore. Ma è il battito nel nostro petto che stiamo spegnendo. E forse è lì che dobbiamo guardare: ciò che ci rende umani, presenti, vivi.
Scendiamo di quota. Lei guarda fuori. Tetris psichedelico fino all’atterraggio. Ruote a terra, toglie la modalità aereo.
Se hai vissuto anche tu momenti di nebbia mentale, raccontamelo nei commenti o scrivimi in privato.
Se pensi possa servire a qualcuno, condividi.
BOX SCIENTIFICO –Cos’è il “Brain Rot”?
Il brain rot (letteralmente “marciume cerebrale”) è un’espressione nata sui social per descrivere uno stato di anestesia cognitiva. Un cervello intasato, sempre attivo ma mai presente.
I segnali
mente appannata
incapacità a focalizzarsi
passaggio continuo da contenuto a contenuto senza trattenere nulla
senso di stanchezza e noia insieme
Le cause
Iperstimolazione dopaminergica
Contenuti brevi e intensi che bruciano la gratificazione calma.
Frammentazione attentiva
Interruzioni costanti che spezzano il filo interno di pensiero.
Saturazione sensoriale
Input continui che impediscono alla mente di riposarsi.
I rimedi
Silenzio, natura, contatto umano.
Lettura lenta, pause, musica lunga.
Disconnessione autentica.
E ricordarsi che l’attenzione è un muscolo: va allenata e custodita.
Riflessione perfetta. Sto leggendo 'La generazione ansiosa' proprio in questi giorni e devo dire che molto di ciò che viene descritto può essere tranquillamente applicato anche agli adulti, non solo agli adolescenti. Nel mio piccolo, infatti, sono proprio i ragazzi che stanno cercando le interazioni offline, si stanno cancellando dai social, vivono fuori dalla bolla il più possibile, mentre gli adulti non riescono a staccare gli occhi dal telefono, dal mattino, letteralmente appena svegli, fino a scrollare il cellulare come ultima cosa prima di dormire. Notifiche sempre accese, notte e giorno, per la paura di perdersi un like. Preoccupante.
Andrea intanto grazie per questo articolo molto interessante. La frammentazione attentiva in cui siamo.immersi credo sia intergenerazionale Sono d'accordo con Lancini, psicoterapeuta che si occupa di adolescenza, che il problema investe anche gli adulti e non solo le giovani generazioni. Se questi alzassero lo sguardo dai social e fossero più in ascolto, forse un primo passo verso buone relazioni aprirebbe possibilità inedite all'incontro, al contatto pieno non mediato tra generazioni. Dico questo anche per uscire dalla logica binaria tenofilia irriflessiva, tecnofobia apocalittica tenendo i piedi ben piantati a terra. E parlo come genitore di oltre 60 anni con una figlia ormai 22enne ma che rimane attento al contesto generale senza grandi certezze, ma con la voglia di mettersi ancora in gioco. Considera che assieme a mia moglie " guidiamo" gruppi negli appennini laziali rispettando un'unica regola: attenzione , apertura dei sensi e silenzio. Questi semplici ingredienti spesso rappresentano per molti una vera e propria rivoluzione copernicana. C'è anche chi non viene piuttosto che rinunciare alla " parola" che spesso diventa narrazione autoreferenziale e sconnessa dal contesto.Abbiamo con noi un formatore della federtrek ( ci supporta ed è fondamentale per la sicurezza in montagna) di grandissima esperienza che aveva smesso di portare gruppi in montagna perché esasperato dal dialogo incessante tra camminatori anche nelle salite più impervie o nella bellezza di una faggeta secolare....Lo abbiamo convinto con la promessa che il silenzio fosse il centro dell'esperienza proposta. La bellezza va coltivata accolta ed esperita con una postura interiore che privilegia lo stare sullo sfondo soprattutto quando si è ospiti..Mantica è un progetto che mi piace anche per la declinazione dei temi proposti in modo flessibile e inclusivo .Un caro saluto e alla prossima!