«La felicità è sempre uguale, ma l’infelicità può avere infinite variazioni, come ha detto anche Tolstoj. La felicità è una fiaba, l’infelicità un romanzo».
Haruki Murakami, “Kafka sulla spiaggia"
Siamo costantemente alimentati da immagini di cose che dovrebbero renderci più felici e la nostra vita più piena. Un recente sondaggio sui millennials che chiedeva loro quali fossero i loro obiettivi di vita più importanti, mostra che oltre l'80% ha detto che diventare ricchi era un obiettivo di vita importante. E un altro 50% di quegli stessi giovani adulti ha detto che un altro importante obiettivo di vita era diventare famosi. Questa radicata convinzione influenza ormai il modo in cui ci muoviamo nella vita; ci spingiamo di più sul lavoro, facciamo pressione per ottenere di più e inseguiamo continuamente le cose che crediamo ci renderanno felici.
Siamo letteralmente ossessionati dal concetti di felicità.
Facciamo allora questo ragionamento assieme.
Immagina di vincere alla lotteria. Non un gratta e vinci da venti euro, ma milioni, così tanti da non dover più lavorare, da vivere in un posto con vista, da scegliere cosa fare ogni mattina Senza orari, senza pressioni.
Adesso immagina, lo stesso giorno, di subire un grave incidente che ti costringa su una sedia a rotelle. Un evento che divide la tua vita in un prima e un dopo. Un trauma che porta via qualcosa di te. Per sempre.
E ora prova a rispondere, d'istinto: chi sarà più felice dopo due anni?
La risposta della scienza sorprende. Anzi, ribalta il senso comune.
Nel 1978 tre ricercatori, Brickman, Coates e Janoff-Bulman, pubblicarono uno studio diventato un classico della psicologia sociale: "Lottery Winners and Accident Victims: Is Happiness Relative?". Analizzarono tre gruppi di persone: vincitori della lotteria, individui paralizzati a seguito di incidenti, e un classico gruppo di controllo.
A due anni dall'evento, la felicità percepita dai vincitori non era significativamente superiore a quella dei paraplegici. E, in certi casi, i secondi erano addirittura più felici.
Sembra assurdo. Ma non lo è.
Il nostro cervello è una macchina adattiva. Sottoposto a eventi estremi, positivi o negativi, tende a ricalibrare il proprio set point emotivo. Noi psicologi chiamiamo questo processo adattamento edonico: in sostanza, ci abituiamo. Anche alla fortuna. Ed incredibilmente anche alla sfortuna.
Due sono i meccanismi principali alla base: contrasto e assuefazione.
Il primo dice che, dopo aver sperimentato un picco (positivo o negativo), tutto il resto sembra più piatto. Il quotidiano si svuota di significato. Ciò che prima dava piacere, ora appare sbiadito (e questo la dice lunga sul successo). Il secondo – l'assuefazione – indica che ogni stimolo, col tempo, perde il suo potere. Anche la villa, anche il conto in banca, anche la sedia a rotelle.
L'essere umano è così: ritorna, sempre. A sé stesso, ai propri pensieri, a un livello di base che non è determinato da ciò che accade, ma da come lo si integra. A ben riflettere c'è una bellezza profonda in questo. Una forma di resilienza biologica.
Perchè ci mostra chiaramente come nessuna felicità è eterna. Ma nemmeno nessuna infelicità lo è. E’ tutto in costante equilibrio.
La mente, con il tempo, riassorbe tutto.
Questo ci invita a riconsiderare cosa realmente cerchiamo. Se inseguire ricchezze, status, illusioni, o coltivare prospettive diverse: presenza, significato, relazioni autentiche, esperienze che non si comprano. Cose che non possano svanire, ma rimanere, gentili, depositate in fondo all’anima.
La felicità non è in ciò che accade. Ma in come scegliamo di attraversarlo.
Qualche tempo fa lessi di una interessante teoria la quale sosteneva che dentro ogni invenzione è insita la sua disgrazia, il suo disastro. Con l’invenzione delle navi si è infatti creato anche il naufragio, con quella dell’aereo il disastro aereo e via dicendo. Con la bomba nucleare forse la fine della nostra civiltà. Mi ha sempre affascinato molto e credo che sia una chiave di lettura interessante.
E’ un modo di pensare alle cose della vita che ti costringe a vedere anche il suo retroscena, l’altra faccia della medaglia, quella che spesso è in ombra e nessuno vuole osservare. Un po’ come per la sedia a rotelle di prima.
Ho sempre pensato che la stessa cosa vale anche per gli affetti.
Dietro l’invenzione dell’amore c’è insita la sua più grande tragedia: la perdita.
E’ uno degli aspetti più sottovalutati e controversi delle nostre vite, perchè espone tutti al dramma dell’esistenza. Eros e Thanatos, diceva il buon vecchio Freud.
Amare profondamente qualcuno ci pone nella condizione di essere fragili, vulnerabili. Più mi lego a qualcuno, più il sentimento sarà forte e più dura sarà la sua eventuale separazione. Nella mia carriera clinica ho visto moltissime persone trovare i più ingegnosi stratagemmi per aggirare questo problema.
Spesso veniva brutalmente risolto a monte: fare di tutto per non entrare mai in intimità.
Questo permette di porre al riparo la propria anima dalla sofferenza, in maniera preventiva. Ma perdendo anche la possibilità di vivere appieno i sentimenti.
E’ una dinamica che mi ha sempre molto incuriosito e l’ho trovata spessimmo nelle persone della mia generazione. Forse è sintomo di una progressiva incapacità di possedere un linguaggio emotivo. All’emancipazione culturale non è stata corrisposta una adeguata emancipazione emotiva.
Anzi, forse siamo regrediti rispetto ad un tempo e parte di questo è certamente colpa della dose di sofferenza alla quale - volontariamente o meno - siamo tutti i giorni esposti grazie ai media. Questo bombardamento continuo ci ha resi tremendamente sensibili fino a generare l’effetto opposto: il diniego.
Il punto però è questo: per amare ci vuole coraggio. Tanto.
Per amare un partner, i figli, un amico, i genitori.
Serve incoscienza e serenità, nella stessa misura richiesta ogni qual volta pensiamo che tutto questo un giorno finirà, che tutto ha una data di scadenza. Ma che non sappiamo quando. E questo fa paura.
Pensate solo ai figli, per i quali il sentimento di amore si decuplica, ma con esso anche la potenziale dose di sofferenza.
Eppure in questa perversa dinamica ho trovato il senso di tutto, della sofferenza a volte gratuita, ed anche del perchè ha senso vivere per quella che non è altro che una breve parentesi su questo meraviglioso pianeta.
L’amore e l’affetto sono l’unico strumento valido per dare valore alla nostra esistenza, senza di esso e tutta una mera ripetizione di istanti sempre uguali.
Il lavoro, le ore perse nel traffico, le liti per cose banali. La rincorsa ad una felicità effimera. Sono tutte increspature della superficie di in un mare che è molto più profondo di quello che vorremmo credere.
Mi ricorda tantissimo il discorso finale del film “A Beautiful Mind”, che narra della storia struggente del grande John Nash, il quale, all'età di ottantasei anni, insieme alla moglie ottantaduenne Alicia, muore in un incidente stradale nel New Jersey alla fine di una vita difficile e straordinaria. Ironia del destino, succede di ritorno dalla Norvegia, dove si era recato per ritirare un prestigioso premio matematico, l'Abel Prize.
Non è un caso che con lui, nei suoi ultimi istanti, ci fosse la donna della sua vita.
Perché grazie all'amore, Nash ha detto di aver fatto la sua più importante scoperta, oltre ogni equazione o calcolo matematico.
"Ho sempre creduto nei numeri. Nelle equazioni e nella logica che conduce al ragionamento. Dopo una vita vissuta in questi studi, io mi chiedo: cos'è veramente la logica? Chi decide la ragione? La mia ricerca mi ha spinto attraverso la fisica, la metafisica, mi ha illuso e mi ha riportato indietro. Ed ho fatto la più importante scoperta della mia carriera. La più importante scoperta della mia vita. È soltanto nelle misteriose equazioni dell'amore che si può trovare ogni ragione logica. Io sono qui grazie a te. Tu sei la ragione per cui io esisto. Tu sei tutte le mie ragioni".
Penso a tutto questo mente guardo le foto che abbiamo scattato lo scorso fine settimana, con la mia famiglia. Un momento semplice, tra di noi.
E’ solo un soffio, un istante. Un click.
A volte vorrei solo fosse per sempre.
Però io c’’ero e con me anche il mio cuore.
E le mie paure, il mio amore.
Abbiamo una sola vita, affrontiamola con il coraggio di vivere fino in fondo i nostri sentimenti.
Ecco allora forse cos’è davvero la felicità.
Se pensi possa servire a qualcuno, condividi.
Se hai vissuto anche tu emozioni simili, raccontamelo nei commenti o scrivimi in privato.
Libro consigliato: "Istruzioni per rendersi infelici" di Paul Watzlawick
"È giunta l'ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità".
Box scientifico 1 - Cos'è l'adattamento edonico?
L'adattamento edonico è un concetto psicologico che descrive la nostra tendenza a tornare a un livello relativamente stabile di felicità nonostante eventi importanti, positivi o negativi.
Ci abituiamo al meglio e al peggio. Dopo una vincita alla lotteria o una tragedia, il picco emotivo (positivo o negativo) iniziale diminuisce col tempo.
Set-point emotivo. Ognuno di noi ha un "livello base" di benessere soggettivo verso cui tende a tornare.
Assuefazione. Anche esperienze estremamente piacevoli, se ripetute, perdono potere emotivo. E lo stesso vale per quelle dolorose.
Contrasto. Dopo un evento straordinario, la quotidianità appare meno significativa, ma col tempo recupera senso.
Capire questo meccanismo ci aiuta a ridimensionare l'importanza degli eventi esterni e a spostare l'attenzione su come elaboriamo, integriamo e rispondiamo internamente alle esperienze della vita.
Box scientifico 2 — Lo studio di Harvard sulla felicità
Cosa rende una buona vita? Lezioni dal più lungo studio sulla felicità:
La maggior parte di ciò che sappiamo su come plasmare una vita felice deriva dal chiedere alle persone di ricordare il passato, ma il senno di poi è tutto fuorché 20/20. Dimentichiamo alcune delle lezioni chiave della vita nel gran numero di ricordi che potremmo aver acquisito nel corso degli anni. Per combattere questo, l'Università di Harvard ha condotto il più lungo studio sulla vita adulta che sia mai stato fatto. L'Harvard Study of Adult Development ha seguito la vita di 724 uomini per più di 75 anni, chiedendo informazioni sul loro lavoro, la loro vita domestica e la loro salute. Ecco cosa hanno scoperto su cosa rende le persone davvero felici e sane.
Cosa rende una vita una buona vita?
1. Le connessioni sociali ci fanno bene, e la solitudine uccide. Si scopre che le persone che sono più socialmente connesse alla famiglia, agli amici, alla comunità sono più felici, sono fisicamente più sani, e vivono più a lungo delle persone che sono meno connesse. Le persone che sono più isolate di quanto vogliono essere dagli altri trovano che sono meno felici, la loro salute declina prima nella mezza età, il loro funzionamento del cervello declina prima, e vivono più a lungo delle persone che non sono solitarie, spiega il dottor Waldinger.
2. Mantenere le relazioni strette, più strette. Non è il numero di amici stretti che hai, o se sei in una relazione impegnata o meno, ma la qualità delle tue relazioni strette che conta. Vivere in mezzo ai conflitti fa male alla salute. I matrimoni ad alta conflittualità senza molto affetto, secondo il dottor Waldinger, sono forse peggio che divorziare. E vivere in mezzo a relazioni buone e calde è protettivo.
3. Le buone relazioni non influenzano solo il nostro corpo, ma proteggono il nostro cervello. Lo stesso studio ha anche dimostrato che essere in una relazione saldamente attaccata ad un'altra persona negli anni ‘ 80 è protettivo, che le persone che sono in relazioni dove sentono di poter contare sull'altra persona nei momenti di bisogno, i ricordi di quelle persone rimangono più nitidi e più a lungo.
Da questo studio, sappiamo che coltivare relazioni strette fa bene alla nostra salute e al nostro benessere. Perché questo è così difficile da ottenere e così facile da ignorare? Siamo umani, vorremmo una soluzione rapida, qualcosa che possiamo ottenere per rendere la nostra vita buona e mantenerla tale. Le relazioni sono disordinate, complicate e richiedono un sacco di duro lavoro. Ma sono anche estremamente gratificanti.
Studio completo: https://longevity.bwh.harvard.edu
Box scientifico 3 – “Nella genesi del progresso, l’invenzione del disastro” (Paul Virilio)
Il filosofo francese Paul Virilio (1932–2018) ha formulato una riflessione potente sull’inevitabile lato oscuro dell’innovazione:
“When you invent the ship, you also invent the shipwreck; when you invent the plane you also invent the plane crash; and when you invent electricity, you invent electrocution… Every technology carries its own negativity, which is invented at the same time as technical progress.”
Punti chiave:
Negativo intrinseco: ogni progresso tecnologico porta con sé un rischio specifico (es. l’aereo: il disastro aereo; la nave: il naufragio).
Critica alla fiducia cieca: il progresso non è mai neutro — senza consapevolezza del potenziale disastro, rischiamo conseguenze catastrofiche.
Velocità e caos: con l’aumento della velocità e della complessità, cresce anche l’entropia e l’imprevedibilità, con ripercussioni sull’ambiente e sulle nostre vite .
Responsabilità etica: ci invita a pensare all’etica della tecnologia, non solo alla sua promessa di benessere, ma anche ai danni latenti.
Perché questo vale per la felicità e la vita?
Allo stesso modo in cui la tecnologia porta il suo disastro, anche le esperienze positive (come la ricchezza o l’amore) sono intrinsecamente legate a rischi (noia, perdita, sofferenza). Ma è proprio accettando la dualità — bellezza e fragilità — che possiamo viverle intensamente, con consapevolezza e coraggio.